Guerre puniche
Home Dedica Cosa è HistoricaLab.it La guerra La simulazione Riconoscimenti Note giuridiche

 

Home
Su

 

 

I contendenti

 

LA PRIMA GUERRA PUNICA (264-241 a.C.)

 

Le origini del conflitto

 

I primi anni (264-257 a.C.)

 

L’invasione dell’Africa (256-255 a.C.)

 

L’ultima fase (254-241 a.C.)

 

IL PERIODO TRA LE DUE GUERRE (241-219 a.C.)

 

La rivolta dei mercenari contro Cartagine (241-238 a.C.)

 

La conquista romana della Sardegna (237 a.C.)

 

I Cartaginesi in Spagna (237-226 a.C.)

 

Roma nel periodo tra le due guerre (237-222 a.C.)

 

Il trattato dell’Ebro, Sagunto e lo scoppio della seconda guerra punica (226-219 a.C.)

 

LA SECONDA GUERRA PUNICA (218-201 a.C.)

 

Annibale invade l'Italia

 

Le prime grandi battaglie (218-216 a.C.)

 

La resistenza romana (215-213 a.C.)

 

La controffensiva romana (212-206 a.C.)

 

Scipione in Africa e gli ultimi anni di guerra (205-201 a.C.)

 

LA TERZA GUERRA PUNICA (149-146 a.C.)

 

Nuovi equilibri politici tra Roma e Cartagine (200-151 a.C.)

 

Cartagine, Massinissa e lo scoppio della guerra (151-149 a.C.)

 

La distruzione di Cartagine (149-146 a.C.)

 

 

 

 

I contendenti

 

All’inizio del III secolo a.C. Roma e Cartagine erano le due maggiori potenze del Mediterraneo occidentale.

Cartagine, fondata nell’814 a.C. da Fenici provenienti da Tiro, era alla guida di un vasto impero commerciale che controllava le coste del Nord Africa, la parte occidentale della Sicilia, la Sardegna, la Corsica e la parte meridionale della penisola iberica. La sua potenza militare si fondava essenzialmente su una grande flotta da guerra, mentre le entrate economiche erano garantite dal monopolio del commercio marittimo e dallo sfruttamento agricolo dell’entroterra africano e siciliano. L’esercito terrestre era composto per la maggior parte da forze mercenarie, reclutate tra le tribù iberiche e libiche, e per una piccola misura da coscritti arruolati tra le popolazioni africane. La vita politica era controllata da un consiglio di 300 anziani (il sinedrio), che agiva in collaborazione con due magistrati eletti annualmente (i sufeti) e con un consiglio più ristretto formato dai cento membri più illustri dell’aristocrazia. Il comando dell’esercito era invece affido a degli strategói (generali), che potevano detenerlo anche per molti anni di seguito.

 

Roma, fondata secondo la tradizione nel 753 a.C., era riuscita, dopo secoli di lotte, a conquistare l’egemonia sull’Italia centro-meridionale, sconfiggendo prima la lega latina (340-338 a.C.), quindi la popolazione dei Sanniti (343-283 a.C.), e infine la città greca di Taranto (280-272 a.C.). In seguito a queste vittorie i Romani avevano dato vita a una complessa e articolata organizzazione statale. Il controllo sulle popolazioni sottomesse era esercitato o attraverso la fondazione, in posizioni strategiche, di colonie di cittadini romani, o mediante la stipula di trattati di alleanza unilaterali (foedera) con i popoli italici; i trattati garantivano alle “nazioni” sconfitte ampia autonomia interna, ma richiedevano in cambio il pagamento di una tassa militare (tributum) e l’invio costante di contingenti armati. Il nerbo della forza militare romana era costituito dalle legioni, truppe terrestri di fanteria pesante che facevano della ferrea disciplina e dell’abilità nel combattimento corpo a corpo le loro armi migliori. La leva era obbligatoria ed estesa a tutti i cittadini iscritti nelle cinque classi di censo, ovvero registri che suddividevano l’intera popolazione maschile adulta in base al reddito calcolato sulle proprietà immobili. A guidare lo Stato era un consiglio di anziani, il Senato (anch’esso formato da 300 membri), mentre il comando degli eserciti era affidato, anno dopo anno, a due magistrati, i consoli, eletti tra le famiglie più ricche e antiche della nobiltà. L’assemblea popolare, riunita o per tribù territoriali (comitia tributa), o per centurie secondo le classi di censo (comitia centuriata), aveva invece potere legislativo e si occupava, oltre che dell’elezione dei sommi magistrati, di ratificare tutti gli atti ufficiali, tra i quali le dichiarazioni di guerra o i trattati di pace.

 

 

LA PRIMA GUERRA PUNICA (264-241 a.C.)

 

Le origini del conflitto

 

Le ragioni che portarono queste due potenze a dare avvio, nel 264 a.C., a un conflitto secolare (264-146 a.C.) rimangono controverse. Sin dal 509 a.C. le due città, seppur in costante ascesa, avevano infatti intrattenuto rapporti decisamente amichevoli, scanditi dalla stipula di quattro trattati (rispettivamente nel 509, 348, 306, 279 a.C.) che le avevano infine portate a stabilire e riconoscere le rispettive sfere d’influenza: l’Italia per Roma; l’Africa, la Sicilia, la Sardegna e le coste meridionali della Spagna per Cartagine.

 

In un’occasione, nel 279 a.C., le due potenze erano addirittura arrivate a siglare un trattato di alleanza militare per respingere la minaccia rappresentata da Pirro, il re dei Molossi chiamato in Italia da Taranto per fronteggiare i Romani, il quale nel 278 a.C. aveva esteso le sue ambizioni di conquista anche su quella parte della Sicilia controllata dai cartaginesi.

Al di là di queste premesse, è comunque importante sottolineare che nel 272 a.C. le due città, seppur ancora in rapporti cordiali e amichevoli, stavano ormai entrando in rotta di collisione a causa delle reciproche ambizioni espansionistiche: da una parte Roma, conquistata ormai l’egemonia sulla parte meridionale della penisola italica, cominciava a guardare con sempre più interesse alla possibilità di espandersi anche in Sicilia, una delle regioni più ricche del Mediterraneo; dall’altra Cartagine, consapevole dell’ambizione dei Romani, era decisa ad anticipare le loro mosse e a completare la conquista dell’isola, verosimilmente con l’obiettivo, in un secondo momento, di estendere a sua volta le proprie mire espansionistiche sull’Italia meridionale.

 

A far precipitare la situazione fu comunque, alla fine, un incidente provocato dalla popolazione dei Mamertini. Questi erano dei mercenari di origine campana che verso la fine del IV secolo a.C. avevano prestato servizio in Sicilia agli ordini di Agatocle, tiranno di Siracusa. Alla morte di quest’ultimo (289 a.C.) i Mamertini si erano impadroniti con la forza della città di Messana (Messina), e negli anni seguenti avevano utilizzato questa città come base per compiere continue scorrerie in tutta la Sicilia nord-orientale. Nel 264 a.C. il comandante siracusano Gerone riuscì tuttavia a infliggere ai Mamertini una pesante sconfitta presso il fiume Longano. I mercenari, timorosi che Gerone continuasse nella sua azione avanzando con le sue truppe fino a Messina, decisero allora di chiedere aiuto ai Cartaginesi, che da secoli si contendevano proprio con i Siracusani il dominio sulla Sicilia. I Cartaginesi risposero ben volentieri all’invito dei Mamertini e posero una propria guarnigione a Messina, convincendo così Gerone a ritornare a Siracusa. Ben presto, tuttavia, i Mamertini si stancarono della presenza dei Cartaginesi che, a loro avviso, stavano cercando di approfittare della situazione per estendere la loro influenza anche sulla parte orientale dell’isola. I mercenari inviarono quindi una richiesta di aiuto ai Romani.

A Roma la questione fu a lungo dibattuta dal Senato. Da una parte diversi senatori si mostravano scettici sulla possibilità di intervenire in Sicilia, essenzialmente perché non sussistevano ragioni valide per aiutare i Mamertini (non legati a Roma da alcun patto d’alleanza). Dall’altra, tuttavia, in molti erano convinti che un intervento si rendesse necessario per arginare l’espansione cartaginese in Sicilia e impedire una pericolosa escalation: la conquista di Messina avrebbe infatti fornito ai Cartaginesi un’ottima base non solo per completare la conquista dell’isola, ma per lanciare in futuro un’offensiva sul territorio italico.

Alla fine, vista l’indecisione del Senato, la questione fu risolta dal popolo, il quale, attirato dalle prospettive di guadagno offerte da una guerra in un territorio ricco come quello siciliano, votò per inviare a Messina un contingente armato. Il console di quell’anno, Appio Claudio Caudex, attraversato lo stretto con un esercito di due legioni, prese quindi posizione a Messina cacciando la guarnigione cartaginese. Aveva inizio la prima guerra punica.

 

I primi anni (264-257 a.C.)

 

In un primo momento le operazioni militari volsero decisamente in favore dei Romani. Dopo aver liberato Messina dai Cartaginesi (cui si erano momentaneamente uniti anche i Siracusani), i consoli del 263 a.C. si misero in marcia su Siracusa e dopo un breve assedio convinsero Gerone, diventato nel frattempo re dei Siracusani, a firmare un trattato di pace con il quale si impegnava a combattere a fianco dei Romani e a prestare loro aiuti economici per il rifornimento delle legioni in Sicilia. L’anno successivo i consoli mossero contro Agrigento, importante cittadella in mano ai Cartaginesi situata a un fondamentale crocevia strategico, che capitolò dopo un assedio di otto mesi.

A questo punto i Romani, che pur avevano ottenuto importanti vittorie campali, si resero conto che per dare una vera svolta al conflitto era necessario procedere con la costruzione di una flotta da guerra. Diverse comunità siciliane, seppur propense a passare dalla parte di Roma, erano infatti titubanti a schierarsi apertamente in suo favore a causa delle rappresaglie compiute dalla flotta cartaginese.

Grazie al contributo dei socii navales (le comunità greche del sud Italia alleate di Roma) fu costruita, in pochi mesi, un’imponente flotta di 120 navi (100 quinquiremi e 20 triremi). Nel 260 a.C. il console Caio Duilio sfidò quindi a battaglia i Cartaginesi e, al largo di Milazzo, i Romani riportarono una netta vittoria. A risultare decisivo fu, in quest’occasione, l’utilizzo dei “corvus”, passerelle mobili dotate di uncini che venivano calate sulle navi nemiche permettendo così ai legionari romani - superiori nel corpo a corpo rispetto ai mercenari cartaginesi - di compiere l’abbordaggio.

     

Nei tre anni successivi (259-257 a.C.) le operazioni militari proseguirono sia sul mare sia sulla terraferma con alterne vicende. In mare i Romani continuarono a conseguire importanti successi, prima al largo della Sardegna e della Corsica, quindi presso le coste meridionali della Sicilia, dove nel 256 a.C. riportarono un’altra significativa vittoria sulla flotta cartaginese presso capo Ecnomo. Forti di questo successo e vista la stagnazione delle operazioni sulla terraferma, i Romani decisero allora di dare avvio a un ambizioso progetto strategico, vale a dire l’invasione dell’Africa.

 

L’invasione dell’Africa (256-255 a.C.)

 

A capo delle operazioni furono posti i consoli del 256 a.C., Marco Atilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone, i quali, sbarcati con facilità sulle coste africane presso capo Bon, ottennero un primo successo sulle armate puniche nella battaglia di Aspis. Vulsone fece allora ritorno a Roma, mentre Regolo, restato in Africa con una forza di circa 15.000 uomini, avanzò ulteriormente nell’entroterra cartaginese e verso la fine dell’anno conseguì un altro importante successo nella battaglia di Adys.

I Cartaginesi, in evidente difficoltà, inviarono allora ambasciatori a Regolo per trattare la possibile conclusione del conflitto. Il console romano, tuttavia, imbaldanzito dai recenti successi, impose condizioni estremamente dure che prevedevano per Cartagine non solo la rinuncia della Sicilia e della Sardegna, ma anche la completa distruzione della flotta e il pagamento di un’ingente indennità di guerra.

Il sinedrio cartaginese rifiutò le condizioni del console e con un enorme sforzo finanziario arruolò nuovi mercenari tra cui il comandante spartano Santippo. Quest’ultimo, giunto a Cartagine, procedette a una profonda riorganizzazione dell’esercito punico e l’anno successivo (255 a.C.) inferse a Regolo una pesantissima sconfitta (battaglia di Tunisi) che costrinse i Romani ad abbandonare ogni velleità di continuare la guerra in Africa. Lo stesso console fu fatto prigioniero e secondo la tradizione fu inviato dai Cartaginesi a Roma per offrire condizioni di pace, ma con la promessa, se i negoziati fossero falliti, di ritornare in Africa. Il Senato tuttavia, proprio sotto consiglio di Regolo, si rifiutò di intavolare qualsiasi trattativa, e il console, nonostante le proteste dei concittadini, fece allora ritorno a Cartagine dove subì un terribile supplizio.

 

L’ultima fase (254-241 a.C.)

 

Il conflitto entrò allora in una fase di stallo. I Romani riuscirono infatti a ottenere discreti successi sulla terraferma conquistando tutte le piazzeforti cartaginesi in Sicilia ad eccezione di Lilybaeum (Marsala), ma sul mare essi subirono diversi rovesci: la flotta fu infatti in più di un’occasione vittima di tremendi naufragi, mentre nel 249 a.C., al largo di Trapani, essa fu completamente distrutta da un’improvvisa sortita dei Cartaginesi. Dal 248 a.C. i Romani si concentrarono allora esclusivamente sulle operazioni terrestri, cercando di portare a termine l’assedio di Lilybaeum, ma le loro azioni furono costantemente frustrate dal comandante cartaginese Amilcare Barca, asserragliato sul monte Erice con le ultime truppe cartaginesi.

I lunghi anni di guerra avevano nel frattempo minato profondamente le risorse economiche delle due città. Da una parte Roma, seppur padrona ormai di gran parte della Sicilia, non riusciva a sferrare il colpo decisivo alle ultime postazioni ancora in mano ai Cartaginesi, mentre dall’altra gli stessi Punici non possedevano la forza necessaria per lanciare una vigorosa controffensiva.

Nel 242 a.C., tuttavia, con un enorme sforzo economico il Senato ordinò la costruzione di una nuova flotta da guerra, finanziata soprattutto grazie alle contribuzioni volontarie dei più ricchi cittadini romani, che si offrirono di anticipare allo Stato le somme necessarie con la promessa di venire poi rimborsati alla conclusione del conflitto. L’anno successivo (241 a.C.) il console Caio Lutazio Catulo, giunto in Sicilia, incontrò e sconfisse la flotta cartaginese al largo delle isole Egadi.

Giunta allo stremo delle forze e incapace, ormai, di assicurare un sicuro e costante vettovagliamento ai suoi eserciti in Sicilia, Cartagine diede allora istruzioni al suo miglior generale, Amilcare Barca, di intavolare con i Romani le trattative di pace. Catulo accettò di buon grado le proposte cartaginesi e offrì condizioni piuttosto miti: Cartagine doveva abbandonare la Sicilia, mantenere la pace con Siracusa e i suoi alleati, restituire senza riscatto i prigionieri romani e pagare un tributo di 2.200 talenti euboici in vent’anni.

Le condizioni di Catulo, che per diventare “ufficiali” dovevano ottenere l’approvazione del popolo, furono tuttavia respinte dai comizi centuriati, i quali imposero ai Cartaginesi clausole più dure che prevedevano l’abbandono, oltre che della Sicilia, anche di tutte le isole comprese tra essa e l’Italia, l’aumento dell’ammontare del tributo di altri mille talenti e il dimezzamento dei termini del suo pagamento, portati ora a dieci anni.

Amilcare, seppur frustrato per l’imposizione di queste nuove condizioni, accettò senza protestare e così fece, di lì a poco, il sinedrio cartaginese.

Terminava così fine la prima guerra punica.

 

IL PERIODO TRA LE DUE GUERRE (241-219 a.C.)

 

La rivolta dei mercenari contro Cartagine (241-238 a.C.)

 

La conclusione del conflitto aprì a Cartagine una gravissima crisi interna. Con la fine delle ostilità le forze mercenarie che avevano servito in Sicilia fecero ritorno in Africa reclamando il pagamento, non ancora corrisposto, degli ultimi anni di servizio. Cartagine tuttavia, già attraversata da una profonda crisi economica aggravata ora dalla necessità di versare a Roma i tributi previsti dal trattato di pace, non era in possesso delle somme richieste.

In un primo momento il Consiglio degli Anziani cercò di placare gli animi dei mercenari versando a ciascuno di essi uno statere d’oro e facendoli raggruppare nella città di Sicca, posta a ben 200 km di distanza da Cartagine. Quindi fu inviato presso di loro un generale, Annone, che spiegò ai mercenari le difficoltà economiche della città e propose di liquidare il soldo dovuto a un tasso inferiore a quello stabilito per contratto. Quest’ultima proposta, unita alla diffidenza che i mercenari provavano per Annone, sotto il cui comando essi non avevano mai prestato servizio, fu tuttavia la goccia che fece traboccare il vaso. I mercenari rifiutarono infatti le offerte del generale e mossero verso Cartagine, accampandosi a soli pochi chilometri dalla città. Qui il governo punico, spaventato dalla minaccia così vicina, cominciò con difficoltà a versare le prime rate dello stipendio, ma questo atto fu percepito dai mercenari come segno di estrema debolezza. Essi cominciarono quindi ad alzare sempre di più le loro richieste, pretendendo, oltre al salario, anche il rimborso per gli equipaggiamenti e i cavalli perduti e il pagamento, in contanti e a tassi più elevati, delle razioni di grano dovute da anni. Quest’ultima richiesta - una vera e propria estorsione - era tuttavia impossibile da soddisfare e, di fronte al rifiuto del sinedrio di accondiscendere alle loro richieste i due capi mercenari, Spendio e Mato, diedero “il via ufficiale” alle ostilità facendo prigioniero Gisgone, il comandante inviato da Cartagine a trattare con i mercenari.

La ribellione, inizialmente circoscritta ai soli mercenari, si propagò rapidamente anche tra i sudditi africani di Cartagine (i Libici), esasperati dagli ingenti tributi imposti dalla città negli ultimi anni del conflitto con Roma. Essi, sobillati prontamente dai mercenari, offrirono ai rivoltosi l’oro necessario per pagare alle truppe il soldo dovuto e un esercito di circa 70.000 uomini. Quasi tutte le città della Libia si unirono ai mercenari ad eccezione di Utica e Ippona Diarrito (odierna Biserta), le quali, rimaste fedeli a Cartagine, furono prontamente messe sotto assedio da parte di Spendio e Mato.

La risposta di Cartagine non fu, in un primo momento, particolarmente efficace. Annone, inviato a Utica per spezzare l’assedio dei ribelli, pur riuscendo ad avere la meglio in uno scontro combattuto fuori dalle mura della città rinunciò all’inseguimento dei nemici, dando in questo modo ai mercenari il tempo di riorganizzarsi. Tornati in forze a Utica essi inflissero alle forze cartaginesi una severa sconfitta.

A questo punto rientrò sulla scena Amilcare Barca, restato fino a quel momento nell’ombra dal suo ritorno dalla Sicilia. Postosi a capo di una piccola forza (10.000 uomini e 70 elefanti), egli si diresse per prima cosa verso Utica, in un nuovo tentativo di rompere l’assedio ribelle. Con una marcia improvvisa Amilcare attraversò il fiume Bagrada (240 a.C.), ponendo così la sua armata tra i due eserciti nemici che controllavano le vie di accesso alla città. Continuando ad avanzare in colonna Amilcare fece credere ai nemici di essere ormai prossimo a compiere una ritirata, ma quando questi ultimi si lanciarono disordinatamente all’attacco, il generale punico fece compiere ai suoi uomini un’improvvisa rotazione, opponendo in questo modo ai nemici un fronte estremamente compatto. La manovra di accerchiamento fu quindi completata dagli elefanti e dalla cavalleria cartaginese: Amilcare riportò una vittoria schiacciante e i ribelli lasciarono sul campo più di 7.000 uomini.

Forte di questo successo, Amilcare si assicurò allora l’alleanza del principe numida Narava (cui promise in sposa una delle sue figlie), e dopo aver ottenuto una seconda vittoria sui ribelli, incoraggiò la defezione tra le loro fila, promettendo una generale amnistia a chi avesse accettato di combattere al suo fianco.

Questa politica ebbe però, come effetto più immediato, quello di radicalizzare la posizione dei ribelli: uno dei loro capi, Ataurito, fece torturare e uccidere Gisgone (insieme ad altri 700 prigionieri cartaginesi), così da compromettere inevitabilmente la posizione dei mercenari. Nel frattempo defezionavano da Cartagine anche Utica e Ippona, così come i mercenari lasciati in Sardegna. Un aiuto insperato venne però a Cartagine dalle potenze internazionali, in particolare Siracusa e Roma, che offrirono alla città punica aiuti di ogni sorta, probabilmente perché timorose di una possibile espansione dell’ondata rivoluzionaria al di fuori dei confini africani.

I Cartaginesi decisero a questo punto di assegnare il comando supremo della guerra a uno solo dei due generali al momento attivi sul campo, Annone e Amilcare, i quali, in quanto avversari politici, erano restii a collaborare per dare vita a una strategia comune. La scelta, presa verosimilmente dall’assemblea popolare, ricadde su Amilcare Barca. Come prima mossa il Barcide, grazie a un nuovo stratagemma, attirò i mercenari in una gola (gola della Sega), e dopo aver imprigionato i loro capi - che si erano recati da lui per trattare le condizioni della resa - li massacrò dal primo all’ultimo uomo. Quindi si mosse ad assediare Tunisi, ultima roccaforte in mano ai mercenari ribelli. Intuendo che la guerra era ormai entrata nella sua fase decisiva, il Consiglio dei Cento a Cartagine propose allora una riconciliazione definitiva tra Amilcare e Annone, e i due generali, unite finalmente le rispettive forze, riuscirono ad avere la meglio sull’ultima forza dei mercenari e a riconquistare anche le città di Utica e Ippona. La guerra era finita

 

La conquista romana della Sardegna (237 a.C.)

 

Come si è già avuto modo di accennare, nella fase più critica della guerra dei mercenari Cartagine aveva potuto contare sull’appoggio di Roma, la quale, nel 240 a.C., si era rifiutata di accettare il dominio sulla Sardegna (offertogli dai mercenari che si erano ribellati a Cartagine) e aveva altresì invitato i propri mercanti a offrire assistenza economica alla città punica.

Tuttavia solo tre anni più tardi, nel 237 a.C., i Romani si resero protagonisti di un clamoroso voltafaccia. In Sardegna la situazione politica aveva infatti subito un repentino cambiamento. Nel 239 a.C. Cartagine, approfittando di un breve momento di tregua della guerra in Africa, aveva inviato sull’isola una forza armata per porre termine all’insurrezione dei mercenari. Questa forza si era tuttavia alleata immediatamente con i ribelli, rafforzando il loro controllo sull’entroterra. Ciò nonostante, solo pochi mesi più tardi i nativi sardi, insofferenti per il duro controllo esercitato dai mercenari, erano insorti e nel volgere di poco tempo erano riusciti a espellere completamente le forze di occupazione. I mercenari, non potendo evidentemente far ritorno in Africa - dove la situazione volgeva ormai in favore dei Cartaginesi - si rivolsero allora, per la seconda volta, ai Romani, chiedendo il loro aiuto per impadronirsi nuovamente dell’isola. Questa volta i senatori decisero di rispondere positivamente all’appello, forse perché convinti che la rivolta delle popolazioni sarde e la loro proclamazione di indipendenza avessero reso nullo ogni reclamo cartaginese sulla Sardegna. Sull’isola fu inviato un esercito sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco.

Nel frattempo i Cartaginesi, che più o meno nello stesso periodo avevano posto termine alla rivolta dei mercenari e convinti evidentemente di avere ancora ogni diritto sulla Sardegna, si apprestavano a loro volta a inviare un esercito sull’isola. Ma quando la notizia di questi preparativi giunse a Roma il Senato si affrettò a inviare un ultimatum a Cartagine rivendicando per sé il possesso dell’isola e minacciando i Cartaginesi di riaprire le ostilità se non si fossero piegati alle loro volontà.

Questa rappresentava ovviamente una minaccia che Cartagine, uscita stremata dalla guerra con i mercenari, non poteva sostenere: la città punica si vide quindi costretta a cedere ogni rivendicazione sulla Sardegna e a pagare ai Romani un’indennità di 1200 talenti.

Le ragioni che portarono i Romani a cambiare in modo così drastico il loro comportamento nel volgere di soli tre anni rimangono tutt’ora controverse. Quel che è certo è che la sottrazione della Sardegna aprì una profonda ferita nell’orgoglio cartaginese, dando avvio a una serie di eventi destinati a sfociare, anche se a distanza di quasi vent’anni, in un nuovo, terribile conflitto tra le due potenze.

 

I Cartaginesi in Spagna (237-226 a.C.)

 

Durante il lungo processo che aveva portato Cartagine a estendere e consolidare il suo dominio sul Mediterraneo occidentale, si erano venuti a formare, all’interno della città, due opposti schieramenti politici, animati da differenti vedute riguardo agli indirizzi da imprimere alla politica espansionistica.

Da una parte la classe dei ricchi proprietari terrieri era convinta che le forze militari cartaginesi dovessero essere impiegate nel tentativo di assicurare alla città un controllo sempre più esteso sull’entroterra africano, il cui sfruttamento era del resto alla base della loro stessa ricchezza. Dall’altra i commercianti e gli uomini di affari guardavano invece con più attenzione alla possibilità di estendere l’egemonia punica sulle isole e le coste del Mediterraneo occidentale. Nel 241 a.C. la classe dei proprietari terrieri, guidata da Annone, aveva avuto un peso decisivo nel convincere il sinedrio cartaginese a concludere finalmente il lungo conflitto con Roma. A fare le spese di questa decisione era stato principalmente Amilcare Barca, che capeggiava invece il “partito” dei commercianti. Tuttavia la fama da lui acquisita nel corso della guerra dei mercenari e il comportamento ambiguo tenuto dai Romani nella “questione sarda” contribuirono ad alterare nuovamente - e questa volta in modo significativo - l’equilibrio politico.

Amilcare si fece infatti portavoce di un esteso sentimento anti-romano, che facendo leva sull’orgoglio ferito dei Cartaginesi li invitata ad adottare le contromisure necessarie per riportare la città ai fasti di un tempo. Obiettivo di Amilcare era quello di preparare una guerra di rivincita sui Romani. Per fare ciò era tuttavia necessario, per prima cosa, recuperare le risorse economiche perdute nei lunghi anni di guerra e soprattutto migliorare l’efficienza dell’esercito terrestre, che nella prima guerra punica non era riuscito a tenere testa alle legioni romane.

Animato da questo spirito Amilcare convinse allora il sinedrio cartaginese a concedergli i fondi necessari per iniziare una vasta campagna di conquista della penisola iberica. Questa regione, posta, almeno per il momento, al di fuori dell’orizzonte controllato dai Romani, era altresì ricca di miniere d’oro, d’argento e di stagno, che avrebbero permesso a Cartagine di recuperare piuttosto rapidamente i fondi con cui finanziare una nuova guerra.

Sbarcato a Gades (l’odierna Cadice) alla fine del 237 a.C., accompagnato dal genero Asdrubale e dal figlio di nove anni Annibale, Amilcare diede inizio a un’ambiziosa ed estesa campagna di conquista che tenne impegnati i Cartaginesi per i successivi otto anni, fino a quando, alla fine del 229 a.C., lo stesso Amilcare rimase ucciso in uno scontro con una delle tribù iberiche.

Il comando dell’esercito punico fu allora assunto da Asdrubale, il quale, più che continuare le operazioni militari, si preoccupò piuttosto di consolidare le recenti conquiste stipulando trattati di alleanza con le popolazioni locali e fondando la città di Nova Carthago (odierna Cartagena), destinata in poco tempo a diventare la florida capitale dell’impero punico in Spagna.

 

Roma nel periodo tra le due guerre (237-222 a.C.)

 

Le operazioni dei Cartaginesi in Spagna furono inizialmente ignorate dai Romani, che nello stesso periodo si trovarono a loro volta occupati in diverse campagne militari. Tra il 237 e il 230 a.C. le legioni furono costantemente impegnate nel difficile tentativo di assicurare il controllo della Sardegna e della Corsica, dove le popolazioni locali offrivano una tenace resistenza alla penetrazione romana.

Nel 229 a.C. fu la volta dell’Illiria. Già da diversi decenni i mercanti romani e italici (negotiatores) intrattenevano proficui scambi commerciali con le comunità greche affacciate sull’altra sponda del mare Adriatico. Negli ultimi anni, tuttavia, tali contatti si erano fatti più complicati a causa dell’intensificarsi delle attività di razzia e brigantaggio compiute da squadroni di pirati illirici. Le proteste avanzate dai commercianti erano state a lungo ignorate dal Senato, impegnato prima nella lunga guerra con Cartagine, quindi nella sottomissione di Corsica e Sardegna, ma finalmente, all’inizio del 229 a.C., l’assemblea decise di inviare un’ambasceria a Teuta, la regina degli Illiri. Gli ambasciatori romani intimarono alla regina di interrompere le attività piratesche, ma Teuta eluse le minacce romane affermando di non essere in grado di controllare le azioni dei suoi corsari. Uno degli ambasciatori provocò allora apertamente la regina prospettando un intervento armato da parte di Roma, e a questa minaccia Teuta rispose facendo uccidere lo stesso ambasciatore.

Quest’ultimo atto offri al Senato il pretesto per intervenire. Nel giro di pochi mesi fu allestito un imponente esercito composto da una flotta di 200 navi da guerra e una forza terrestre di 20.000 legionari. I Romani procedettero a un sistematico rastrellamento delle basi illiriche nell’Adriatico, e nei primi mesi del 228 a.C. Teuta si vide costretta a chiedere la pace: al comando dell’Illiria fu posto Demetrio di Faro, un principe locale che all’inizio del conflitto aveva abbandonato la regina per unirsi ai Romani.

Posto termine alla minaccia illirica, i Romani volsero le loro attenzioni alla frontiera settentrionale. L’egemonia romana sulla penisola italica si estendeva a nord sino al fiume Arno, oltre il quale il territorio della valle del Po era controllato da diverse popolazioni di origine celtica, in particolar modo dai Galli Boii (che occupavano l’odierna Emila Romagna) e dagli Insubri (che controllavano l’odierna Lombardia e il Piemonte). Roma aveva combattuto aspre guerre con queste popolazioni per tutto il IV e la prima parte del III secolo a.C., fino a quando, nel 268 a.C. non era stata raggiunta una tregua che aveva garantito più di un trentennio di pace. A partire dal 232 a.C., tuttavia, la situazione tornò a farsi tesa. In quell’anno il tribuno della plebe Caio Flaminio Nepote fece approvare una legge che distribuiva ai più poveri contadini romani vasti appezzamenti di terra dell’Ager Gallicus Picenus (il territorio che i Romani avevano sottratto ai Galli nel 268 a.C., corrispondente oggi alla parte settentrionale delle Marche). Questa misura fu tuttavia interpretata dai Galli come sintomo della volontà romana di riprendere in modo vigoroso la spinta espansionistica verso nord.

Nel 225 a.C. i Boii e gli Insubri, cui si unirono per l’occasione anche bande di mercenari della tribù dei Gesati, lanciarono quindi un deciso attacco verso sud, ma dopo aver sbaragliato gli avamposti romani in Umbria, furono raggiunti e circondati presso Talamone dalle forze congiunte dei due consoli, che riportarono una schiacciante vittoria.

La battaglia non segnò però la fine delle ostilità. Negli anni successivi i Romani inviarono costantemente i propri eserciti oltre il Po, nel tentativo di eliminare una volta per sempre la minaccia dei Galli. Nel 222 a.C. il console Marco Claudio Marcello riportò un’altra grande vittoria a Clastidium (odierna Casteggio nell’Oltrepò pavese), mentre il collega Cneo Scipione Calvo assediava e conquistava Mediolanum (odierna Milano), capitale degli Insubri. I Galli furono quindi costretti a chiedere la pace, e il riconoscimento della supremazia romana fu sancito nel 219 a.C. con la fondazione delle due colonie di Piacenza e Cremona.

 

Il trattato dell’Ebro, Sagunto e lo scoppio della seconda guerra punica (226-219 a.C.)

 

Si è già detto che negli anni compresi tra il 237 e il 227 a.C. i Romani non s’interessarono alle operazioni compiute dai Cartaginesi in Spagna, sostanzialmente perché impegnati nel tentativo di consolidare la loro egemonia sulle coste del Tirreno, dell’Adriatico e sulla frontiera settentrionale della penisola italica.

Alla fine del 226 a.C., tuttavia, un’ambasciata romana raggiunse la Spagna e stipulò con Asdrubale un trattato, il quale stabiliva che i Cartaginesi non potessero oltrepassare in armi il fiume Ebro.

A promuovere l’accordo fu verosimilmente Marsiglia, città greca dedita al commercio e da tempo alleata dei Romani, che guardava con sospetto e preoccupazione al progressivo ampliarsi delle mire espansionistiche cartaginesi sulla penisola iberica, regione nella quale la stessa Marsiglia deteneva diverse colonie.

Il trattato dell’Ebro, che, in linea generale, stabiliva di fatto l’esistenza di due sfere d’influenza, riconoscendo a Cartagine il diritto di proseguire con la sua campagna di conquista della Spagna meridionale, ribadiva allo stesso tempo la posizione di superiorità ormai assunta da Roma nei rapporti diplomatici tra le due potenze, perché se da una parte ai Cartaginesi era esplicitamente vietato di oltrepassare in armi il fiume, dall’altra nessun vincolo era imposto a una possibile ingerenza dei Romani all’interno della penisola iberica. E infatti più o meno nello stesso periodo (la cronologia è discussa) i Romani stipularono un’alleanza con la città greca di Sagunto, posta oltre 200 km a sud dell’Ebro e quindi in pieno “territorio cartaginese”. Nonostante questa ingerenza, per i successivi cinque anni la situazione tra le due potenze rimase sostanzialmente tranquilla, con i Romani completamente assorbiti dalla guerra gallica e i Cartaginesi impegnati a consolidare il loro dominio sui territori di recente conquista.

A scompaginare in modo definitivo gli equilibri fu, alla fine del 221 a.C., la morte di Asdrubale, ucciso, pare, da uno schiavo: le armate cartaginesi in Spagna elessero all’unanimità come nuovo comandante Annibale Barca, il figlio di Amilcare. Annibale dimostrò sin da subito di possedere un carattere completamente diverso da quello di Asdrubale. Se quest’ultimo si era mostrato incline a rafforzare la potenza cartaginese mediante l’uso della diplomazia, Annibale aveva invece ereditato dal padre il carattere bellicoso e soprattutto un odio inveterato per i Romani. Deciso quindi a riprendere il progetto sognato dal padre - quello di una guerra di rivincita su Roma - Annibale s’impegnò, tra il 221 e il 220 a.C. a sottomettere a Cartagine tutte le popolazioni iberiche situate a sud del fiume Ebro, dimostrando già da questi primi scontri di essere in possesso di uno straordinario genio militare.

Le campagne condotte da Annibale finirono per mettere in allarme Sagunto, timorosa, e a ragione, che prima o poi il Barcide avrebbe rotto gli indugi con i Romani lanciando contro di essa un vigoroso attacco. I saguntini inviarono quindi diverse richieste d’aiuto ai Romani e questi ultimi si decisero infine a mandare in Spagna una nuova ambasciata con il compito di ricordare ad Annibale i limiti imposti dal trattato dell’Ebro e a intimargli soprattutto di non muovere contro Sagunto, città posta sotto la protezione di Roma. Tuttavia Annibale, ormai convinto dell’inevitabilità di un nuovo scontro con Roma e sicuro dell’appoggio del sinedrio cartaginese, controllato in questi anni dalla sua fazione, ignorò gli ammonimenti romani e nella primavera del 219 a.C. mosse contro Sagunto cingendola d’assedio.

L’iniziativa di Annibale colse di sorpresa i Romani, che nello stesso periodo si trovavano impegnati nella seconda guerra illirica: Demetrio di Faro, dimentico dei benefici ricevuti da Roma, aveva infatti concesso agli Illiri di riprendere le loro attività piratesche, contravvenendo in questo modo ai patti stipulati alla fine del 228 a.C. A sedare questa rivolta furono inviati entrambi i consoli del 219 a.C., mentre Sagunto, nonostante le continue richieste di aiuto, fu lasciata in balia del suo destino: la città capitolò ai Cartaginesi dopo otto mesi di strenua resistenza.

Quando la notizia della distruzione di Sagunto raggiunse Roma, il Senato inviò a Cartagine un durissimo ultimatum in cui s’intimava alla città punica di offrire le adeguate riparazioni economiche e soprattutto di consegnare Annibale nelle mani dei Romani. Il sinedrio rifiutò categoricamente ogni condizione e all’ambasciatore romano che li invitava a scegliere allora se volessero la pace o la guerra con Roma i membri del consiglio risposero vigorosamente che sceglievano la guerra. Aveva così inizio il secondo conflitto punico.

 

LA SECONDA GUERRA PUNICA (218-201 a.C.)

 

Annibale invade l'Italia

 

I Romani erano convinti che la guerra si sarebbe presto risolta in loro favore. Alla naturale superiorità delle legioni rispetto alle truppe mercenarie cartaginesi essi potevano ora aggiungere un’indiscussa supremazia sul mare, conquistata proprio a termine della prima guerra punica. In virtù di queste considerazioni, nella primavera del 218 a.C. essi assegnarono ai consoli Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo il compito di effettuare tutti i preparativi necessari per condurre due rapide campagne di conquista: Scipione avrebbe affrontato Annibale in Spagna, mentre Longo sarebbe sbarcato in Africa per costringere il sinedrio cartaginese a venire rapidamente a patti.

I Romani non avevano tuttavia fatto i conti con il genio militare di Annibale. Grazie agli insegnamenti del padre, Annibale aveva ormai compreso che la forza vitale di Roma risiedeva nell’enorme bacino di reclutamento offerto dalla confederazione degli alleati italici. Questi erano legati alla città da patti di alleanza che imponevano loro di fornire ad ogni occasione sostanziosi contingenti armati. Proprio grazie a questo sistema di alleanze Roma era riuscita a sopportare l’enorme sforzo bellico richiesto dalla prima guerra punica.

Per controbilanciare questo vantaggio Annibale concepì allora un grandioso progetto strategico: invadere la penisola italica e portare la guerra direttamente sul territorio romano. Il Barcide era infatti convinto che se fosse riuscito a infliggere ai Romani delle pesanti sconfitte in Italia, i socii avrebbero via via abbandonato l’alleanza con la città egemone, privando in questo modo Roma delle sue risorse belliche e costringendola a capitolare. Egli era inoltre sicuro che, una volta attraversate le Alpi, anche le popolazioni galliche recentemente sottomesse dai Romani - i Boii e gli Insubri - si sarebbero unite alla sua causa, andando così a sostituire le perdite subite nella marcia di avvicinamento. Nella primavera del 218 a.C., ricevuta notizia che Cartagine aveva rotto gli indugi e dichiarato apertamente guerra ai Romani, Annibale si mise quindi in marcia da Nova Carthago alla testa di un imponente esercito forte di oltre 90.000 uomini.

Attraversati i Pirenei e giunto in Provenza, Annibale riuscì a guadare, seppur con difficoltà, il fiume Rodano, eludendo la presenza dell’esercito romano inviato a contrastarlo. Presa quindi la via delle Alpi, dopo una traversata epica, giustamente celebrata dalla tradizione antica e moderna, all’inizio dell’inverno del 218 a.C. egli mise finalmente piede in Italia, ricevendo subito l’appoggio di numerose tribù galliche.

Le prime grandi battaglie (218-216 a.C.)

 

Il console Scipione, inviato dal Senato in Provenza per arrestare la marcia del Cartaginese, fatto precipitosamente ritorno in Italia affrontò Annibale presso il fiume Ticino, ma in uno scontro che vide impegnate le cavallerie dei due eserciti, riportò una severa sconfitta e decise di ritirare le sue truppe presso Piacenza. Nel frattempo il Senato romano, colto completamente alla sprovvista dall’audace piano di Annibale, aveva richiamato in Italia anche l’altro console, Tiberio Sempronio Longo, ordinandogli di rinunciare all’invasione dell’Africa e di portare invece le sue truppe a nord per dare man forte al collega.

Giunto a Piacenza, Sempronio Longo, convinto che la semplice superiorità numerica avrebbe garantito ai Romani una facile vittoria sui Cartaginesi schierò immediatamente le sue truppe a battaglia.

Annibale, tuttavia, aveva avuto modo di preparare a dovere il successivo scontro. Accampatosi presso il fiume Trebbia, nel corso della notte egli fece nascondere alcune sue truppe in un bosco. La mattina seguente (18 dicembre 218 a.C.) inviò quindi la sua cavalleria a provocare i Romani, e dopo che questi ebbero attraversato in forze il fiume fece scattare la trappola ordinando alle truppe ancora nascoste tra la vegetazione di attaccare alle spalle i legionari. Colti completamente alla sprovvista e pressati anche ai fianchi dai terribili attacchi della cavalleria numidica, i Romani subirono un’altra, pesantissima sconfitta: solo un manipolo di legionari riuscì a sfondare centralmente le linee cartaginesi e a trovare riparo a Piacenza.

Nonostante la sconfitta i Romani erano ancora convinti di poter avere la meglio su Annibale in un grande scontro campale. All’inizio del 217 a.C. i due consoli, Caio Flaminio Nepote e Cneo Servilio Gemino furono incaricati dal Senato di prendere posizione rispettivamente ad Arezzo e a Rimini, così da bloccare ogni tentativo di Annibale di penetrare più profondamente all’interno della penisola. Il Cartaginese riuscì tuttavia a eludere nuovamente le forze romane, e dopo aver attraversato gli Appennini in un punto non controllato dai Romani si diede a provocare il console Flaminio facendogli credere di voler marciare direttamente su Roma. Flaminio, di temperamento particolarmente bellicoso, si mise allora ad inseguire i nemici, ma fu così attirato da Annibale in una trappola mortale presso il lago Trasimeno. Fatti nascondere i suoi sulle colline a nord del lago, il Barcide li lanciò all’attacco non appena all’orizzonte fece la sua comparsa la colonna dell’esercito romano. Nel breve scontro che seguì i Romani lasciarono sul campo più di 15.000 uomini: lo stesso Flaminio trovò la morte.

La notizia di questa nuova sconfitta gettò Roma nel panico. Come già avvenuto in altre condizioni di estrema gravità, i Romani nominarono allora un dittatore, ovvero un magistrato eccezionale che per sei mesi deteneva un potere assoluto all’interno della città. A ricoprire questa carica venne chiamato Quinto Fabio Massimo, un anziano senatore già due volte console e di provata esperienza militare.

Consapevole della superiorità tattico-militare di Annibale, Fabio decise di adottare una nuova strategia bellica, la quale prevedeva di evitare, se non in condizioni assolutamente favorevoli, lo scontro in campo aperto con i Cartaginesi e di puntare invece tutte le forze in una lunga guerra di logoramento. Fabio era infatti convinto che se si fosse riusciti a isolare Annibale all’interno della penisola, privando il suo esercito di sicure basi di vettovagliamento e tagliando le sue linee di comunicazione con Cartagine, alla lunga i superiori mezzi logistici e umani in possesso dei Romani avrebbero garantito a loro la vittoria.

La tattica di Fabio, seppur lungimirante, era tuttavia avversata dall’aristocrazia senatoria, convinta che “l’onore di Roma” richiedesse una chiara e limpida vittoria campale. Scaduti quindi i sei mesi della dittatura, all’inizio del 216 a.C. il Senato fornì ai nuovi consoli - Lucio Emilio Paolo e Caio Terenzio Varrone - un esercito di notevoli dimensioni (più di 80.000 uomini) e il mandato di affrontare e sconfiggere Annibale in una singola battaglia.

Il Cartaginese, messo in difficoltà dalla strategia fabiana, si era nel frattempo attestato in Puglia, montando il suo accampamento presso Canne (vicino all’odierna Canosa di Puglia), su un terreno pianeggiante e favorevole quindi all’utilizzo della cavalleria numidica.

Giunti sul posto anche i consoli, il 2 agosto del 216 a.C. i due eserciti si affrontarono a battaglia e Annibale riportò nuovamente un memorabile successo.

Facendo leva sulla resistenza della sua fanteria mercenaria e sulla superiorità della cavalleria numidica, il Cartaginese riuscì ad accerchiare completamente l’esercito romano con una micidiale manovra a tenaglia: i Romani lasciarono sul campo più di 50.000 caduti, tra cui anche il console Lucio Emilio Paolo, che preferì morire sul posto piuttosto che accettare il disonore della sconfitta.

 

La resistenza romana (215-213 a.C.)

 

Nonostante la schiacciante vittoria riportata a Canne, Annibale, seppur pressato dai suoi generali, si rifiutò di marciare su Roma, che egli considerava probabilmente inespugnabile a causa delle forti mura “serviane”, e preferì piuttosto rimanere nel sud Italia a fomentare la rivolta dei socii italici. In effetti diverse comunità - tra cui Capua, considerata allora, dopo Roma, la più grande e ricca città d’Italia - defezionarono dall’alleanza romana e misero le proprie risorse a disposizione del generale cartaginese. Il sentimento anti-romano si estese ben presto anche al di fuori dei confini della penisola. Filippo V, nuovo sovrano di Macedonia, convinto che la fine di Roma fosse ormai prossima e desideroso di impossessarsi delle comunità greche affacciate sul mare Adriatico (sulle quali Roma aveva esteso la propria egemonia in seguito alle due guerre illiriche), firmò con Annibale un trattato di alleanza con cui si impegnava a portare le sue armate in Italia o comunque a ingaggiare i Romani anche sul fronte orientale. All’inizio del 215 a.C. venne inoltre a mancare Gerone di Siracusa, che dal 263 a.C. aveva sempre mantenuto fede alla sua alleanza con Roma e il trono passò al nipote Ieronimo il quale dimostrò da subito di nutrire sentimenti filo-cartaginesi. Intuendo le inclinazioni del nuovo sovrano, Annibale inviò in Sicilia una delegazione che stipulò con Ieronimo un patto di alleanza con il quale anche il sovrano siracusano si impegnava a prendere le armi contro i Romani.

Seppur minacciati su tutti i fronti, e nonostante le aperture dello stesso Annibale, i Romani si rifiutarono di intavolare qualsiasi negoziato con i Cartaginesi. Furono adottati provvedimenti straordinari tra cui l’arruolamento nelle legioni dei ragazzi che non avevano ancora compiuto l’età legale (diciassette anni) e degli stessi schiavi, cui in cambio del servizio veniva offerta la libertà. Grazie a queste misure e al fatto che diverse comunità del centro-Italia, soprattutto quelle latine, mantennero fede alla loro alleanza, i Romani riuscirono a schierare un numero sufficiente di legioni con cui contrastare l’avanzata dei Cartaginesi.

In questa fase ritornò prepotentemente sulla scena Quinto Fabio Massimo il quale, vista legittimata l’accortezza della sua strategia bellica dalla terribile sconfitta di Canne, riuscì a farsi eleggere per due anni di fila al consolato tra il 215 e il 214 a.C. e a garantire la carica al giovane figlio nel 213 a.C. In questo triennio egli ebbe quindi modo di dispiegare con continuità la sua strategia bellica. Sul fronte italico i Romani impiegarono costantemente un numero altissimo di legioni con le quali frustrarono ogni tentativo di Annibale di allargare la sua rete di alleanze, mentre nello stesso periodo la flotta romana, stazionata al largo di Brindisi, impediva a Filippo V di portare le sue truppe in Italia.

In Sicilia fu invece inviato un altro famoso generale, Marco Claudio Marcello, il quale, sbaragliate sul campo le forze cartaginesi e siceliote, pose ben presto l’assedio alla stessa Siracusa. Le operazioni romane furono tuttavia frustrate dall’efficace difesa offerta dai Siracusani, guidata in questo caso dal famoso matematico Archimede, e la città capitolò solo alla fine del 212 a.C. grazie a un tradimento.

 

La controffensiva romana (212-206 a.C.)

 

Il 212 a.C. segnò in effetti un punto di svolta per l’intero conflitto. In Italia i Romani, dopo essere riusciti negli anni precedenti ad arginare l’ondata di defezioni tra gli alleati italici, passarono all’offensiva ponendo l’assedio a Capua. Annibale cercò allora di creare un diversivo spingendo il suo esercito fino alle porte di Roma convinto che il Senato, spaventato dalla sua mossa, avrebbe richiamato gli eserciti impegnati in Campania. I Romani tuttavia non si fecero intimidire e Annibale, constatata una volta di più l’impossibilità di assalire la città, fece marcia indietro ritirandosi in Lucania (Calabria).

Abbandonata a se stessa, Capua chiese e ottenne la resa nel 211 a.C. Nello stesso periodo i Romani, per allentare la minaccia macedone, siglarono inoltre un accordo con la lega etolica, una confederazione di città-stato greche tradizionale nemica della Macedonia, che costrinse Filippo V ad abbandonare ogni speranza di traghettare il suo esercito in Italia.

L’attenzione di Roma e Cartagine si spostò allora sulla penisola iberica. Al momento di partire per l’Italia Annibale aveva lasciato in Spagna gran parte delle sue forze sotto il comando di suo fratello Asdrubale, con la speranza che negli anni successivi egli gli avrebbe inviato i rinforzi necessari a foraggiare la sua campagna italica. I Romani avevano però preso le dovute precauzioni inviando nella penisola iberica i fratelli Publio e Cneo Cornelio Scipione i quali, tra il 218 e il 211 a.C., avevano condotto in modo brillante le operazioni militari impedendo ad Asdrubale di inviare soccorsi al fratello e costringendo soprattutto Cartagine a destinare alla penisola iberica le forze che avrebbero dovuto invece giungere in Italia in aiuto di Annibale.

Alla fine del 211 a.C., tuttavia i fratelli Scipione furono vittima di un agguato e massacrati insieme con la maggior parte delle loro truppe. Il Senato decise allora di inviare in Spagna il giovanissimo Publio Cornelio Scipione - figlio omonimo del console del 218 a.C. e futuro “Africano” - il quale, assunto il comando delle truppe sopravvissute (cui si aggiunsero rinforzi inviati da Roma) passò decisamente all’offensiva. Nel 209 a.C. s’impadronì, con una mossa a sorpresa, di Nova Carthago, mentre l’anno successivo (208 a.C.), nei pressi di Baecula, inflisse ad Asdrubale una severa sconfitta. Quest’ultimo, seppur battuto, riuscì tuttavia a fuggire con buona parte delle sue truppe e si mise in marcia sull’Italia in un estremo tentativo di portare aiuti al fratello. Giunto in Italia, Asdrubale fu affrontato dai consoli del 207 a.C., Caio Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore, che presso il fiume Metauro sbaragliarono le forze cartaginesi. Lo stesso Asdrubale rimase sul campo e la sua testa, raccolta dai consoli come macabro trofeo di guerra, fu portata ad Annibale a testimonianza che ogni tentativo di ricevere rinforzi era ormai illusorio.

Nel frattempo il giovane Scipione continuava con la sua campagna di conquista della penisola iberica. Il fratello più giovane di Annibale, Magone, raccolse le ultime forze cartaginesi in un disperato tentativo di ribaltare le sorti del conflitto, ma a Ilipa, nella Spagna meridionale, Scipione riportò un’altra schiacciante vittoria (206 a.C.) che sancì in modo definitivo la completa estromissione dei Cartaginesi dalla penisola iberica.

 

Scipione in Africa e gli ultimi anni di guerra (205-201 a.C.)

 

La guerra aveva ormai preso un indirizzo favorevole ai Romani: Annibale, costretto nell’estrema punta meridionale della Calabria, non poteva più sperare di ricevere rinforzi né dalla Spagna né tantomeno da Cartagine, visto il costante pattugliamento della flotta romana. Alla fine del 206 a.C. i Romani acuirono ancora di più il suo isolamento firmando con Filippo V la pace di Fenice, che in sostanza riconosceva lo status quo precedente alla scoppio del conflitto. Seppur tagliato fuori da ogni comunicazione, Annibale restava comunque un avversario temibile da affrontare: già nel 208 a.C. i consoli Marco Claudio Marcello e Tito Quinzio Crispino avevano cercato di sfidare il Cartaginese a battaglia, ma erano stati da questi sorpresi in una trappola e uccisi. Alla fine del 206 a.C. in molti a Roma erano tuttavia convinti di aver finalmente trovato un generale in grado di sconfiggere Annibale, ossia il giovane Publio Cornelio Scipione.

Scipione era in effetti una personalità anomala nel panorama politico romano. Nato del 235 a.C., egli aveva avuto occasione di mettersi in mostra già da giovanissimo, quando nel 218 a.C. aveva salvato la vita del padre, allora console, nella battaglia del Ticino. In seguito, a soli ventiquattro anni e senza aver mai ricoperto alcuna magistratura curule (il consolato o la pretura), era stato insignito del comando delle truppe spagnole e nei successivi cinque anni era riuscito a sbaragliare completamente le forze cartaginesi. Dotato di un grande carisma personale, Scipione incarnava perfettamente gli ideali di una nuova generazione di nobili romani che, educati ormai alla cultura greca, si ponevano al di fuori degli schemi tradizionali imposti a Roma dal mos maiorum, mostrando una più decisa inclinazione verso l’instaurazione di un vero e proprio “culto” della singola persona. Anche sul piano militare Scipione si proponeva come un deciso “innovatore”. Grandissimo ammiratore di Annibale, che considerava un genio e un modello da imitare, Scipione aveva trascorso gli anni in Spagna cercando di ammodernare l’esercito romano, in particolare tentando di dotare la fanteria legionaria di una maggiore flessibilità che le permettesse di cambiare rapidamente formazione nel corso della battaglia.

In Spagna Scipione aveva inoltre maturato un ardito progetto strategico per portare a conclusione il conflitto punico. Da anni la sua famiglia si faceva portavoce in Senato di una particolare visione politica che voleva fare di Roma una grande potenza sullo scenario internazionale, la capitale di un impero che abbracciasse tutto il bacino del Mediterraneo. Affinché questo piano si realizzasse era necessario, per prima cosa, eliminare - se non fisicamente, quantomeno “politicamente” - Cartagine, riducendola allo stato di potenza di secondo ordine. L’eliminazione di Cartagine non si sarebbe ottenuta, tuttavia, con la semplice sconfitta di Annibale sul suolo italico; essa doveva passare necessariamente da un’invasione del territorio africano. Scipione si proponeva, in sostanza, di ripetere lo stesso progetto tentato tredici anni prima da Annibale, anche se al contrario: portare la guerra in Africa, battere ripetutamente i Cartaginesi sul proprio territorio, sollevare i loro alleati e costringerli infine ad accettare una pace umiliante.

Tornato quindi a Roma alla fine del 206 a.C. ed eletto console per l’anno successivo, Scipione presentò il suo progetto al Senato, il quale, dopo un iniziale tentennamento, gli accordò il permesso di trasferire le sue truppe in Africa.

Sbarcato sul suolo cartaginese all’inizio del 204 a.C., Scipione ottenne subito l’appoggio del principe numida Massinissa, e l’anno successivo conseguì presso i Campi Magni (203 a.C.) un importante successo sulle forze puniche. Minacciata direttamente dalle legioni romane, Cartagine si vide allora costretta a richiamare Annibale dall’Italia. Lo scontro decisivo tra i due generali avvenne nel 202 a.C. presso Zama. Nonostante l’abilità di Annibale, che riuscì a frustrare tutti i tentativi di accerchiamento portati avanti da Scipione, alla fine la battaglia fu decisa dalle forze di cavalleria numidica guidate da Massinissa, che attaccando da tergo i Cartaginesi consegnarono ai Romani una schiacciante vittoria.

Annibale, scampato allo scontro e rientrato precipitosamente a Cartagine, invitò i suoi concittadini a chiedere la pace. Le condizioni imposte dai Romani furono durissime: Cartagine doveva rinunciare per sempre a tutti i suoi territori extra-africani (la Sicilia, la Sardegna e la Spagna); pagare a Roma un’ingente indennità di guerra e un tributo di 10.000 talenti in 50 rate annuali; distruggere completamente la sua flotta a eccezione di 10 navi; riconoscere la costituzione del regno di Numidia (sul cui trono fu posto Massinissa); infine, condizione più dura di tutte, impegnarsi a non dichiarare guerra ad alcuno Stato senza il previo consenso di Roma.

Ottenuta la ratifica di queste condizioni, Scipione fece quindi ritorno a Roma dove celebrò un magnifico trionfo.

 

LA TERZA GUERRA PUNICA (149-146 a.C.)

 

Nuovi equilibri politici tra Roma e Cartagine (200-151 a.C.)

 

A determinare la sconfitta di Cartagine nella seconda guerra punica contribuirono diversi fattori, ma quello che ebbe maggior peso fu senza dubbio la lealtà mostrata dagli alleati latini e in parte da quelli italici verso Roma. Anche di fronte agli strabilianti successi conseguiti da Annibale nei primi tre anni del conflitto, questi preferirono infatti mantenere intatti i legami di alleanza con Roma, sostanzialmente perché la città era stata capace, nei secoli precedenti, di portare avanti un profondo processo di integrazione con le comunità italiche, dando vita a una compagine interstatale estremamente compatta che Annibale, nonostante i suoi sforzi, non era mai riuscito a spezzare. Agli occhi dei latini e degli italici Annibale aveva continuato a rappresentare “il nemico”, “l’invasore”, con cui ogni compromesso era impossibile.

Le conseguenze della vittoria ottenuta su Cartagine furono per Roma importantissime. Diventata ormai padrona assoluta del Mediterraneo occidentale, la città era convinta di aver superato il test più importante nella corsa verso l’acquisizione del dominio universale. Le monarchie ellenistiche che dominavano allora la parte orientale del Mediterraneo - la Macedonia degli Antigonidi, la Siria dei Seleucidi e l’Egitto dei Lagidi o Tolemei - non erano infatti in grado di incutere nei Romani la stessa paura provocata dai Cartaginesi.

Nei cinquant’anni successivi alla conclusione della “guerra annibalica” Roma si impegnò quindi in una serie di conflitti che le consegnarono infine la supremazia su tutto il Mediterraneo. “Vittime” di questa politica di conquista furono sia la Macedonia di Filippo V e del figlio Perseo (II e III guerra macedonica: 200-196 a.C. e 171-167 a.C.), sia la Siria di Antioco III (guerra siriaca: 192-187 a.C.). Anche le città-stato greche, beneficiarie in un primo momento di una generale “liberazione” (proclamazione di Corinto: 196 a.C.), finirono ben presto per essere costrette a riconoscere la supremazia dei Romani. Più difficoltà furono invece riscontrate da Roma nella sottomissione dell’Italia settentrionale (dove le ultime tribù dei Galli e i Liguri opposero una tenace resistenza) e soprattutto nella conquista della penisola iberica, il cui completo inglobamento nello Stato romano avverrà solo sotto Augusto (guerre cantabriche: 29-19 a.C.).

Nel corso delle guerre condotte contro le monarchie ellenistiche (200-167 a.C.) i Romani poterono avvalersi della collaborazione dei Cartaginesi, i quali, come da trattato, fornirono a Roma aiuti economici e militari.

Nonostante le terribili condizioni di pace, Cartagine era infatti riuscita in breve tempo a ricostruire gran parte della sua forza economica. Sgravata dall’onere di sostenere un’ambiziosa politica espansionistica, la città si era potuta nuovamente dedicare alle attività mercantili che già in passato l’avevano portata a fondare un florido impero economico. A testimonianza di questa ripresa i Cartaginesi si erano addirittura offerti, nel 191 a.C., di versare ai Romani tutto il tributo ancora da pagare in una sola soluzione (offerta comunque rifiutata dal Senato).

 

Cartagine, Massinissa e lo scoppio della guerra (151-149 a.C.)

 

A turbare i Cartaginesi erano però i rapporti con il vicino regno di Numidia.

Una clausola del trattato di pace stipulato alla fine della seconda guerra punica aveva infatti concesso a Massinissa il diritto di reclamare per il suo regno tutti quei territori appartenuti in passato ai suoi antenati e che nel corso dei secoli erano passati nelle mani dei Cartaginesi. Il problema era qui rappresentato dal fatto che i confini tra i due Stati (la Numidia e Cartagine) non erano mai stati fissati in modo preciso e negli anni che seguirono la fine della guerra annibalica Massinissa sfruttò proprio questa circostanza per impadronirsi a suo piacimento dei territori che più gli aggradavano. Fedeli al trattato stipulato con Roma, i Cartaginesi non risposero mai in modo aggressivo alle provocazioni del Numida, rivolgendosi sempre all’arbitrato dei Romani, sebbene questi decidessero puntualmente di appoggiare le richieste di Massinissa.

Quando però Massinissa avanzò rivendicazioni sul territorio degli Emporia - uno dei più fertili dell’entroterra cartaginese - appoggiato, anche in questo caso, dal benestare dei Romani, i Cartaginesi decisero che non era più possibile restare a guardare e, armato prontamente un esercito, lo inviarono contro il re numida. Quest’atto, seppur legittimo di fronte alle continue prevaricazioni dei Numidi, andava però a violare un’altra clausola del tratto del 201 a.C., ovvero quella che vietava ai Cartaginesi di dichiarare guerra a un altro Stato senza il previo assenso di Roma. Consapevoli di ciò e vista la concomitante distruzione del proprio esercito, facilmente sconfitto da Massinissa, i Cartaginesi inviarono allora un’ambasciata a Roma per giustificare il loro intervento, pregando il Senato di non compiere alcun atto di ritorsione nei loro confronti.

In Senato tuttavia era ormai dominante la linea politica “intransigente” sostenuta da Catone il Censore. Questi era un anziano senatore(all’epoca più che settantenne) il quale già da alcuni anni sosteneva la necessità di distruggere Cartagine, la cui ricchezza economica era tornata a costituire, a suo avviso, una seria minaccia per il dominio di Roma sul Mediterraneo.

Il Senato rispose all’ambasciata dei Cartaginesi con un durissimo ultimatum: essi dovevano consegnare a Roma tutta le loro armi da guerra, smobilitare l’esercito e abbandonare la loro stessa città, che avrebbero dovuto poi ricostruire nell’entroterra a una distanza minima di 15 km dal mare.

Queste condizioni rappresentavano in realtà solo un pretesto per giustificare un intervento armato, e infatti di fronte al pronto rifiuto dei Cartaginesi di “spostare” la propria città i Romani risposero con un’immediata dichiarazione di guerra (149 a.C.).

 

La distruzione di Cartagine (149-146 a.C.)

 

L’equilibrio delle forze in campo pendeva naturalmente in favore dei Romani, ma i Cartaginesi riuscirono ad opporre una tenace resistenza. Barricati all’interno delle loro mura, per ben due anni essi furono in grado di frustrare tutti i tentativi d’assedio dei Romani. La situazione cambiò drasticamente solo nel 147 a.C., quando il comando della guerra fu assegnato al giovane Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote “adottivo” dell’Africano. Dopo aver ristabilito la disciplina tra le truppe romane, Scipione diede avvio a una spettacolare e sistematica opera d’assedio, chiudendo ogni via d’accesso per Cartagine e isolando completamente la città anche dal mare. Una volta terminata quest’opera Scipione lanciò una serie di attacchi combinati, portando la guerra tra le stesse strade della città fino a quando gli ultimi difensori non si consegnarono nelle sue mani o scelsero la via del suicidio.

Cartagine fu completamente distrutta dai Romani, mentre gran parte del suo territorio andò a costituire la nuova provincia d’Africa. A Roma la notizia della capitolazione dell’antica nemica fu celebrata con un’intera notte di festeggiamenti. Scipione, come già il suo nonno adottivo, una volta tornato in Italia celebrò un grandioso trionfo.