Salvatore Todaro
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il Don Chisciotte del mare

“Da mesi e mesi non faccio che pensare ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare. Penso che il mio posto è con loro”.

Così scrisse Salvatore Todaro il 12 dicembre 1942, un giorno prima di morire, in una lettera ad un suo amico salentino, che aveva vissuto con lui le incredibili vicende a bordo del sommergibile “Cappellini”. Todaro aveva solo trentaquattro anni e tutta una carriera davanti a se, aveva una moglie giovane e due figlie piccolissime (la secondogenita vedrà la luce, a Livorno, dove tuttora vive, proprio in quel giorno dedicato a Santo Spiridione, un pecoraio di Cipro rozzo e incolto che grazie alla fede e al coraggio diventò vescovo di Trmithonte ) e non aveva nessun motivo per desiderare la morte.

 Todaro si trovava nel porto di La Galite, in Tunisia, a bordo del piropeschereccio Cefalo, un nome emblematico, mitico, che rievoca la leggenda del bellissimo cacciatore che uccide per errore la propria moglie e poi, pazzo di dolore, si getta in mare. Forse, chissà, anche lui riteneva di aver fatto un errore fatale nella sua ultima sanguinosa battaglia in Atlantico, una lunga e impari lotta condotta in superficie tra il suo sommergibile Cappellini e l’Emaueus, una grossa nave mercantile inglese trasformata in una sorta di incrociatore ausiliario, carica di truppe destinate in Africa, assai ben armata, con diversi cannoni a lunga gittata. Che cominciano a bersagliare il Cappellini su di un mare in tempesta le cui onde sono come frustate per il sommergibile italiano, lo spazzano da prora a poppa, lo sballottano come un sughero, asteria o osso di seppia. Ma alla fine Todaro, nonostante tutto, prevale e riesce ad affondare quel finto mercantile inglese carico di oltre tremila soldati. Che naufragano. Molti di essi moriranno, inghiottiti dalle onde gelide. E insieme a loro moriranno molti marinai dell’equipaggio.

Stavolta Todaro non li può aiutare, non può fare nulla per loro. Non ha a disposizione neppure una lancia di salvataggio e inoltre stanno sopraggiungendo gli aerei e le navi inglesi . Deve far presto a squagliarsela e non è per nulla facile. Il sommergibile è assai malandato, ci sono avarie un po’ da tutte le parti e naviga in superficie. E’ un’impresa sfuggire al tiro incrociato degli inglesi, che lo hanno ormai avvistato. Todaro opera una immersione di fortuna e cerca scampo sul fondo marino. Dopo varie peripezie riesce a salvarsi e a far ritorno a Bordeaux, dov’è la base dei sommergibili italiani. Ma quella battaglia denominata di “Freetown” segna il limite, il crinale dell’ascesa di Salvatore Todaro, il Don Chisciotte del mare . Quella vicenda lo aveva mutato profondamente. Qualcosa si era spento in lui, qualcosa di sacrale si era rotto dentro di lui.

Sacerdote del mare

Chi lo ha conosciuto bene lo ricorda come un asceta, un mistico, un sacerdote che appartiene ad una religione che ha per tempio il mare e per altare il sommergibile . Altri dicono che era come un antico spartano: sobrio, schivo, introverso, solitario, con un portamento fiero e un’andatura rigida, quasi altera. In realtà quell’andatura era dovuta al fatto che Todaro portava il busto, a causa di una frattura alla colonna vertebrale, riportata quando volava sugli idrovolanti come osservatore aereo. Oggi diremmo che Todaro era un invalido a tutti gli effetti e forse avrebbe il diritto alla pensione di invalidità, ma lui non voleva sentirlo dire neppure per scherzo. Non accettava neppure che si accennasse alla sua menomazione, peraltro a conoscenza di tutti i medici che lo avevano sottoposto a visita sanitaria, per timore di essere relegato al servizio sedentario. Del resto la cultura del sacrificio gli era connaturata e l’Accademia Navale di Livorno la sviluppò oltre ogni limite. Era – come scrisse un giornalista dell’epoca - “un soldato nel più puro senso della parola, un soldato nel più segreto fondo del suo spirito e lo dimostrò subito dopo quell’incidente applicandosi come un matto, giorno e notte, allo studio dei sommergibili e dei mezzi d’assalto per diventare, in capo a pochi anni, uno dei più grandi esperti e specialisti del settore”.

 

La vicenda del “Kabalo”

 Allo scoppio della guerra ottiene il comando del sommergibile Cappellini, destinato in Atlantico. Todaro è tra i primi ad attraversare lo stretto di Gibilterra e a raggiungere Bordeaux, dove è la base del Comando dei sommergibili italiani, Betasom. Qui gli basta qualche mese per diventare famoso in tutta Europa. Per la cronaca è il pomeriggio del 15 ottobre 1940, quando avvista, con il periscopio, un grosso piroscafo belga, al servizio degli inglesi, il Kabalo (si appurò più tardi che era una nave dispersa del convoglio inglese OB.223 e trasportava pezzi di ricambio aeronautici). Lo affonda con una serie di cannonate. Nella luce abbagliante dell’incendio scoppiato a bordo si distinguevano le persone che correvano inutilmente verso le scialuppe di salvataggio che però le cannonate del Cappellini avevano messo fuori uso. Soltanto una riuscì a calarsi in acqua stracarica di naufraghi mentre la nave affondava. Todaro decide di rimorchiare i ventisei naufraghi e, incredibilmente, navigando in emersione ed esponendosi a tutti i rischi possibili, li trasporta in mare per ben quattro giorni e quattro notti. Con le condizioni del mare che peggioravano continuamente la sorte degli occupanti la scialuppa sembrava però segnata. Un’onda travolse la fragile imbarcazione lasciando al proprio destino ventisei uomini. Ma fu proprio in quel momento, quando il sottomarino italiano avrebbe dovuto allontanarsi il più velocemente possibile per non essere intercettato dal nemico, che Todaro ordinò il recupero di quegli uomini in balìa del mare e destinati a morte certa. Una volta a bordo vennero “sistemati” nell’unico posto utile all’interno del sottomarino: la falsa torre. E’ un’altra “follia”, ma lui prosegue nell’estremo tentativo di salvare quegli uomini. Per due giorni e due notti il Cappellini viaggiò giocoforza in emersione con tutti i rischi che questo poteva comportare. Sull’Isola del Sale, del gruppo del Capo Verde, dove Todaro voleva sbarcare quegli uomini, c'erano delle fortificazioni inglesi. Se avessero avvistato il sommergibile italiano, i loro cannoni non avrebbero esitato a sparare. Ma Todaro non aveva molta scelta ed In piena notte mise in mare il battellino pneumatico. Cinque per volta, i naufraghi raggiunsero la spiaggia.

Dell’episodio ne parlarono i giornali di tutto il mondo. L’Ammiraglio Tedesco Doenitz, che comandava la guerra sottomarina, richiamò all’ordine Todaro e irritato gli fece presente che mai un tedesco, per puro sentimentalismo ,avrebbe rischiato in quel modo l’affondamento del sommergibile. La storia, mai smentita, racconta che Todaro replicò: “Il fatto è Ammiraglio, che io in quel momento sentivo sulla schiena il peso di secoli di civiltà. Un ufficiale tedesco, forse, non avrebbe sentito quel peso”.

E’ ormai il “Gentiluomo del mare”, o il “Don Chisciotte del Mare”.

    

“Neppure il buon samaritano della parabola evangelica avrebbe fatto una cosa del genere”, sbotta infine l’ammiraglio tedesco Donitz, che pure lo ammira. “Signori, - dice rivolgendosi ai comandanti italiani – io vi prego di voler ricordare ai vostri ufficiali che questa è una guerra e non una crociata missionaria. Il Signor Todaro è un bravo comandante, ma non può fare il Don Chisciotte del mare”.

 

L’onorificenza del “Tu”

Nella vicenda del Kabalo vi erano stati molti aspetti contrastanti e anche inconvenienti di natura diplomatica, e alla fine per Todaro anziché elogi ci furono richiami all’ordine e moniti da parte dei superiori. Ma il Don Chisciotte del mare non ne tenne affatto conto e un mese dopo ripeté pari pari l’operazione Kabalo, affondando e poi salvando i naufraghi del piroscafo inglese Shakespeare, confermando la sua fama di piantagrane e di “originale”, anche per il modo che aveva di combattere, (in emersione e con il cannone) assolutamente fuori dagli schemi. Non era sfuggito neppure il suo strano comportamento con gli inferiori, molti dei quali gli davano addirittura del “Tu”. Erano tutti quelli che aveva decorato sul campo con la frase rituale: “Da oggi tu mi darai del Tu”.

Questa onorificenza del Tu valeva più di una medaglia d’oro per i suoi fedeli marò, che lo adoravano come un semidio, tale era il suo carisma. Da tutta la sua persona promanava un grande senso di sicurezza, ardore e spregiudicatezza, quasi un senso di invulnerabilità. Era un vero capo che dava costantemente l’esempio per ardimento e smisurato spirito di sacrificio, era lui il primo ad esporsi ai pericoli, a soccorrere e incoraggiare i suoi uomini, ai quali riusciva a trasmettere autorevolezza e fiducia e un altissimo senso di protezione. Perciò non desta alcuna meraviglia che i suoi uomini facessero carte false per imbarcare con lui, che sembrava conoscere in anticipo l’esito delle battaglie e dava ordini con un tono pacato di voce, ordini che erano vaticini e profezie. E al riguardo c’è tutto un fiorire di aneddoti.

 

Mago Bakù

Todaro era anche un uomo di profonda e originale cultura: conosceva testi antichi e rari di letteratura, astronomia, matematica, e soprattutto aveva una vera e propria passione per la psicanalisi, fino al punto di sperimentare su di sé (una sorta di cavia volontaria, come lo era stato lo stato il padre della psicanalisi) le teorie freudiane . Ma alla fine gli predilesse Jung, allora poco conosciuto in Italia, soffermandosi a lungo sulla teoria dell’inconscio collettivo.

A Bordeaux, fra una missione di guerra e l’altra, passava lunghe giornate chiuso nel suo camerino a leggere, studiare, sperimentare. Si narra, a proposito di aneddoti, che una volta, per gioco, riuscì ad ipnotizzare una signora con estrema facilità. E così la sua fama di corsaro gentiluomo si colorò di altri aspetti, assunse toni accesi e istrioneschi. In effetti c’era, in quel suo pizzetto di barba nerissima, un che di mefistofelico ed anche nel suo sguardo obliquo, magnetico, indagatore, c’era un che di stregonesco.

Era quello il periodo in cui Todaro s’era appassionato alle teorie di Lombroso e continuava a leggere, disordinatamente, un po’ di tutto, dalla filosofia alla parapsicologia, ai libri sulle pratiche magiche. E così a bordo cominciarono a chiamarlo Mago Bakù. Si dice, in effetti, che avesse una sorta di preveggenza. C’è chi giura di averlo sentito fare delle previsioni che si sono avverate fin nei minimi particolari. Una volta lasciò a terra un marinaio perché prevedeva che ci sarebbero stati pericoli solo per lui. E infatti in mare non successe nulla, però il marinaio in questione fu colto da un violento attacco di appendicite, con pericolo di peritonite, e si salvò solo perché poté essere prontamente ricoverato in ospedale e trasportato in sala operatoria.

La morte di Stiepovich

Un’altra volta mandò in licenza il suo mitragliere più fido, che non voleva saperne di lasciare i suoi compagni. “E’ un ordine!”, gli disse con perentorietà il comandante Todaro . Poi confidò ad un amico che il giovane marinaio aveva il destino segnato. “ Che si goda qualche giorno in famiglia prima di quel giorno”. Un mese dopo il marinaio rimase ucciso, mentre si trovava alla sua mitragliera da uno scoppio di granata che frantumò la torretta del sommergibile. Fu infallibile fino a quel giorno.

Ma alla vigilia di Natale del 1941, mentre si accingeva a compiere l’ennesima missione, qualcosa lo turbò. Non riusciva ad avere quella sua solita serenità, quel distacco necessario per concentrarsi. Confidò ad un compagno di corso e amico, il comandante Fecia di Cossato, che improvvisamente s’era fatta nebbia dentro di lui. Era incapace di vedere con la mente. “Questa volta non so proprio che cosa ci capiterà”, disse all’amico sorridendo. Poi si fece serio e disse: “C’è qualcosa in me che non riesco a decifrare ed è la prima volta che mi capita. Se non dovessi tornare, ti prego, consegna questa a mia moglie”.

Si sfilò dall’anulare la fede nuziale e la diede all’amico.

“E’ l’unica cosa di valore che ho e desidero che torni a chi me l’ha donata”.

Usciti in mare si scontrarono con l’incrociatore inglese Eumaues. Todaro non morì in quella che sarebbe stata la drammatica battaglia di Freetown, ma morirono molti suoi marinai e il tenente Danilo Stiepovich, che aveva sostituito al pezzo un mitragliere gravemente ferito.

Colpito in pieno da una granata, con una gamba maciullata e molte altre gravi ferite, ormai morente, Stiepovich giaceva riverso sulla mitragliera. Todaro gli si avvicinò, se lo prese tra le braccia e gli chiese, con tutta la dolcezza possibile: “Che cosa posso fare per te, Danilo?”

“Non mi mandare in infermeria… Non servirebbe a nulla… Lasciami qui… Voglio vedere affondare quella là”, - rispose Stiepovich indicando con la mano la nave che continuava a cannoneggiare il sommergibile.

“Te lo prometto”, disse Todaro. E pochi minuti dopo l’ incrociatore inglese colava a picco colpito in pieno da un siluro. Stiepovich faceva in tempo a vederlo inabissarsi, poi spirava. Todaro gli si avvicinava e gli chiudeva gli occhi per sempre.

 

Il male è la guerra

E subito dopo inizia la lunga odissea del Cappellini in costante e disperata fuga, avvistato, inseguito, braccato, colpito, riporta gravi danni che sembrano irreparabili. Invece riesce a eludere il nemico acquattandosi sul fondo dell’Oceano per due giorni e due notti, al buio. Due giorni e due notti a seppellire i morti, a tamponare le mille avarie, ad innalzare preghiere al cielo, sotto milioni e milioni di tonnellate d’acqua marina. Infine il rientro di fortuna a Luz, un porto della Gran Canaria e, qualche giorno dopo, beffando ben cinque navi inglesi che lo attendevano al varco, fuori dal porto, riesce a raggiungere Bordeaux. Il Cappellini è davvero malridotto, rimarrà fuori uso per diversi mesi. E’ il momento buono per sbarazzarsi di Todaro che era diventato un problema per tutti, per Supermarina (il comando generale della Marina) e per gli alleati tedeschi, che pure ammirandolo molto (gli avevano conferito due croci di ferro) lo ritenevano troppo umanitario.

 In realtà chiese lui di essere sbarcato perché sentiva di aver fallito la sua missione.

“Ma perché dici che hai fallito?,” gli ribatteva il fraterno amico Comandante Leoni. “Hai fatto l’impossibile, sei riuscito, nonostante le difficoltà estreme, a salvare molti marinai e a riportare il Cappellini in porto. Quello che hai fatto è miracoloso e tu dici che hai fallito. Perché?”

Non rispose. Forse era convinto di essere venuto meno nei confronti dei suoi marinai morti, molti dei quali aveva decorato sul campo con la frase rituale: “Da oggi tu mi darai del tu”. O forse le ragioni erano altre. Ma non ne voleva parlare. “Tu hai l’animo nitido e pulito come cristallo, - proseguiva Leoni - hai il massimo senso dell’onore, la tua coscienza ti detta sempre le mosse che devi compiere...”

“Nulla, nulla puoi rimproverarti, capisci? Di che cosa ti accusi, Totò?” - concluse accorato. In realtà, Todaro non sapeva dire perché si sentiva colpevole.

“Penso che il mio posto è con i miei marinai, sul fondo del mare, accanto a loro. Sì, questo penso.” Disse. E si tacque. Leoni scosse la testa e se ne andò.

 Forse intuì che stava cambiando lo spirito della guerra, le regole erano diverse.

O forse capì, vedendo tanti naufraghi, migliaia di naufraghi, che chiedevano disperatamente aiuto, vedendo il sangue di Stiepovioch e dei suoi marinai caduti, che il male non era il nemico, ma la guerra stessa. “Sì, il male è la guerra”, pensò e il pensiero salì fino al cielo. In tutto l’universo gli sembrava che fosse disegnata, che campeggiasse, a caratteri infiniti, l’immensa scritta “ IL MALE E’ LA GUERRA”. Ed ecco allora la verità consequenziale. Tutta la sua lunga preparazione alla vita era stata un errore! Io ho passato tutto la mia vita a prepararmi per la guerra. Ma la guerra è un male, un male, capisci! Sono un fallito! Un fallito!

 Così pensò quell’uomo che sembrava ormai privo di spirito, quell’uomo che aveva affondato molti piroscafi, molti incrociatori, che aveva lottato alla pari con navi molto più armate e potenti di lui e anche contro gli aerei, sempre rischiando in prima persona . Quel comandante che spesso si metteva al cannone, che aveva la canna così arroventata da cuocerci due uova, e ci si metteva a mani nude, mani bruciate, sanguinanti.

Quel guerriero del mare che aveva sempre combattuto con grande coraggio e spirito da cavaliere antico, con lealtà, generosità, magnanimità, senza mai veramente odiare il nemico. Ma ora forse avvertiva per la prima volta il peso del sentimento dell’odio. Ora capiva che non si può fare la guerra per cavalleria, perché fare la guerra significa dover uccidere e quindi odiare. E quel sentimento ignobile stava prevalendo su di lui e gli sarebbe rimasto per sempre appiccicato nell’anima .Questo non lo sopportava. Gli era intollerabile.

Il Comandante Todaro è morto

Chiese e ottenne di essere impiegato nelle operazioni più rischiose. Prima con i Mas in Crimea, poi al comando del piropeschereccio Cefalo, in Tunisia, che appoggiava i motoscafi d’assalto nelle imprese più difficili e rischiose. E aspettò la morte che inevitabilmente sarebbe arrivata.

Intanto viene a conoscenza degli orrendi misfatti perpetrati ai danni dei naufraghi italiani del Laconia, a cui avevano mozzato le mani per impedir loro di salire a bordo dell’imbarcazione di salvataggio . Alla fine i naufraghi italiani morti saranno ben 1350 su complessivi 1800. Tutti crudelmente abbandonati al proprio destino! E lui aveva rischiato cento mille volte la vita per salvare i ventisei naufraghi belgi del Kabalo! …

“Ma sì, ho sbagliato tutto, ora lo so, ne sono certo”, pensa, mentre sta effettuando l’ennesima missione notturna nel porto di Bona. Ma il tempo è pessimo e l'azione non si può effettuare. Ritorna nel porto di La Galite e si mette a dormire. E' il mattino del 13 dicembre 1942 e un aereo inglese, uno “Spitfire” scendendo a volo radente e spezzonando, mitraglia il Cefalo. La contraerea riesce a mettere in fuga l’aereo e subito dopo alcuni marinai italiani si precipitano a bordo del peschereccio, cercano Todaro. Lo chiamano, ma non risponde. Vanno nella sua cuccetta e lo trovano con gli occhi chiusi, sembra che dorma.

In tutto quel fracasso non s’è neppure mosso. Ma guardandolo meglio si nota una piccola scheggia che gli ha trapassato la tempia .Gli erano già a fianco le sirene del mare per trasportare la sua anima tra gli abissi insondabili.

“Il Comandante Todaro è morto”, grida un marinaio piangendo.

E tutti sono increduli e addolorati. Piangono in silenzio. Guardano il cadavere e non credono ai loro occhi. Sembra loro impossibile che Todaro sia morto. Per chiunque lo avesse conosciuto l’idea che un tal uomo potesse morire sembrava irreale. Aveva incarnato come pochi il mito dell’eroe buono. Ma in realtà il guerriero del mare, il cavaliere azzurro, il Don Chisciotte del mare era morto molto tempo prima.

“Morirò quando il mio spirito sarà lontano da me”, aveva detto più volte.

E il suo spirito si era cominciato ad allontanare da lui quel giorno della battaglia di “Freetown”, quel giorno in cui aveva preso coscienza del male della guerra, quel giorno in cui aveva cominciato a odiare il mestiere che faceva.

Il mitico eroe Salvatore Todaro era morto in quel giorno.

Quello che giaceva ora lì, nella cuccetta del Cefalo, non era il comandante Todaro, ma solo il suo simulacro.

 

Augusto Benemeglio

 

Copyright © 2002 Augusto Benemeglio

Gallipoli, marzo 2002

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