Prigioniero in India
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Spero vivamente che quanto segue possa essere utile alle nuove generazioni per meglio comprendere quanto la guerra sia insulsa e distruttiva, sul piano fisico che su quello morale. Vorrei che fosse un invito all’uguaglianza tra le persone, indipendentemente dalla bandiera, uniforme, lingua e religione. Mi auguro inoltre che in futuro i reticolati o il filo spinato non dividano più gli uomini.

Reduci dalla strenua difesa di Bardia (Africa Settentrionale Italiana), protrattasi dal 16 dicembre 1940 al 3 gennaio 1941, ove caddero prigionieri degli Inglesi 40.000 soldati italiani, fummo raccolti, smistati e imbarcati a Suez, diretti in India - colonia inglese - ove giungemmo dopo una quindicina di giorni di navigazione. Per evitare di annoiare i lettori  non intendo descrivere il morale e lo stato d’animo di noi prigionieri.

Bombay era una grande città percorsa da tram, omnibus e centinaia d'automobili. Sceso dalla nave, nel porto, vidi un grande arco chiamato “la porta dell’India”, dove passavano i sovrani ed i viceré dell’India. Nella piazza antistante, c’era schierato un reggimento di soldati indiani, facenti parte dell’esercito inglese, essi fecero ala lungo l'ampio viale che conduceva alla stazione ferroviaria, per evitare che qualcuno di noi, nella confusione, se la svignasse. Da questo grande scalo ferroviario partivano treni elettrici ed a vapore.

Fummo riforniti con un tascapane ciascuno contenente varie scatolette di carne, tonno, prugne, datteri, uva passita e fichi secchi. Ci fecero poi salire su di una tradotta militare a carbone molto lenta, diretta al campo di concentramento di Bangalore, all’interno dell’India, quindi trascorremmo circa due giorni e tre notti in treno.

Il mio conoscente Alfredo, che scese dalla nave per ultimo, mi raccontò che gli Inglesi  gli fecero scaricare le coperte della nave; gran parte dei pidocchi dalle coperte emigrarono addosso a quei poveri prigionieri cosicché  i loro vestiti dovettero essere disinfestati tramite degli appositi forni. Alcuni vagoni, carichi di prigionieri, vennero attaccati ad una locomotiva e portati in giro per le stazioni della regione mo’ di propaganda:  per far vedere agli indiani quanti prigionieri italiani erano stati presi.

Nel campo

Siamo arrivati al campo di prigionia n. 11 Wing 4 di Bangalore, la mia matricola di prigioniero di guerra è n. 126968.

Il comandante, un capitano inglese d'origine maltese, era cattolico e parlava bene l’italiano, ma era prevenuto nei nostri confronti. Alla prima adunata ci raccontò che, prima della guerra, aveva fatto un viaggio a Napoli, dove dopo avergli tagliato il gilet, con grande destrezza, gli avevano rubato l’orologio da tasca con relativa catenina, senza che se ne accorgesse minimamente. Dopo il racconto dello spiacevole episodio ci ammonì severamente: «Voi Italiani non fate i furbi anche qui, perché qualcuno potrebbe buscarsi una fucilata!».

Interno di una delle baracche del Italian Prisoner of War Camp Group II di Bairagarh (Bophal)

Vi erano diversi campi vicini ed ognuno conteneva circa 1.400 - 1.500 soldati. Nel campo correva voce che prima del nostro arrivo qualche prigioniero era riuscito a fuggire e riparare a Goa, colonia portoghese, da dove poi era ritornato in patria.

All’ospedale

Dopo poco tempo dall’arrivo, contrassi l’itterizia; ero diventato completamente giallo come una zucca, compresi occhi ed unghie e quindi fui ricoverato ad un ospedale civile di Bangalore.

Il mio amico Pierino, in seguito, mi raccontò come si svolsero i fatti. «Dopo alcuni giorni che eri all’ospedale i medici ritenevano seria la tua malattia tanto che si presentò al campo un ufficiale chiedendo: “Chi è parente di Nicola Santecchia? Chi è di Colmurano di Macerata?” Risposi che ero dello stesso paese, ma non parente, allora l’ufficiale mi fece accompagnare all’ospedale al tuo capezzale ove sembravi morente, infatti mi dicesti: “Salutami la mia famiglia, io non ritornerò più in Italia morirò qui!”. Dopo essere rimasto un po’ a farti compagnia anche  per cercare di allontanare un po’ la tristezza, dovetti tornarmene al campo, dove dopo circa una ventina di giorni ritornasti perfettamente guarito».

Il medico italiano mi spiegò che, probabilmente, la malattia aveva avuto origine da una violenta paura, che suppongo sia stata provocata dalla bomba d’aereo che mi esplose vicino durante la battaglia di Bardia. Grazie alle cure di un medico inglese e ad una dieta a base di frutta e verdura, priva di carne, dopo un mese guarii completamente.

Lo spiacevole equivoco

Al campo di prigionia, un giorno il capitano inglese della Sussistenza chiese al nostro maresciallo capo-campo dieci uomini. L’interprete, un sergente maggiore dei bersaglieri, un certo Piffero, tradusse che i prigionieri dovevano essere fucilati. Il sergente chiese quindi preoccupato al maresciallo: «Adesso chi prendiamo?» il quale gli rispose: «Metti in fila i prigionieri nel piazzale e prendine uno ogni dieci».

Un nostro tenente che si trovava poco distante ed aveva quindi sentito il discorso perché conosceva l’inglese, chiarì lo spiacevole equivoco creato dal buon sergente, non portato per le lingue: “gli uomini servivano per andare a far la spesa!”

Il sergente aveva scambiato il significato di queste due frasi: “Go to the shop” (andare a fare la spesa) con  Going to be hot” (per essere fucilati). In ogni caso il sottufficiale doveva sapere che, secondo la Convenzione di Ginevra, i prigionieri di guerra non potevano essere fucilati.

I reticolati del campo di prigionia erano alti 3 - 4 metri con sulla sommità il filo spinato, di giorno ci si poteva avvicinare, ma di notte erano accesi i riflettori ed era proibito.

Le sentinelle che vigilavano il perimetro esterno erano indiane, indossavano un casco coloniale bianco e la loro paga era di circa venti Rupie al mese, mentre gli altri militari erano Inglesi. Tra gli Indiani serpeggiavano già sentimenti di ribellione anti inglese, li abbiamo sentiti dire: "Presto raggiungeremo l'indipendenza dalla Gran Bretagna".

In seguito Pierino mi ha raccontato che, negli ultimi anni di prigionia,  giunsero dei soldati indiani impegnati sul fronte italiano e richiamati in patria per far servizio nei campi di prigionia. Queste guardie avevano imparato un po’ d’italiano e ne approfittavano in modo  per nulla elegante  mostrando delle foto che si erano fatti in Italia con delle ragazze e dicendo beffardi: «Questa è tua sorella, tua moglie,  ecc. vedi !».

Il tempo per le conversazioni non mancava e i discorsi sulla gelosia si facevano di frequente. I prigionieri che provenivano dal sud Italia, in caso di necessità per difendere l’onore delle loro donne, erano disposti anche ad usare il fucile a canne  mozze, chiamato lupara. All’estremo opposto c’erano gli Inglesi che non sembravano minimamente gelosi delle spose, riuscivano infatti a rimanere in buoni rapporti anche con l’amante della moglie, cosa inconcepibile per un italiano.

Due volte al giorno dovevamo fare adunata per essere contati in uno spiazzale detto anticampo, alla presenza del comandante del campo e di alcuni sottufficiali dell’esercito britannico chiamati quarter’master. Spesso accadeva che si sbagliavano a contare, eravamo così costretti a stare tre o quattro ore sotto il sole che picchiava. Per evitare di prendere insolazioni, ci avevano dato in dotazione dei caschi di colore chiaro leggeri e freschi fatti con le foglie della pianta di banana.

Il rancio comprendeva farinaccio fatto con farina di riso, orzo e grano; anche i maiali italiani mangiavano qualcosa di simile! Per i pasti usavamo i piatti, un giorno mentre avevo ritirato la mia porzione di farinaccio con un bel pezzo di bollito e stavo apprestandomi a mangiare, una cornacchia scese fulminea in picchiata dal cielo, mi rubò la carne, rovesciò la minestra e mi lasciò senza pranzo, ah se l’avessi presa,  gli avrei sicuramente tirato il collo!

Durante il trasferimento da un campo all’altro abbiamo trascorso qualche periodo sotto le tende, ricordo che una sera, a causa delle torrenziali piogge portate dai monsoni, il campo e le nostre tende si allagarono, i miei tre cuscini imbottiti di crine vegetale e la coperta s'inzupparono ben bene. Terminato il temporale, tracciammo dei solchi esterni per drenare l’acqua ed evitare che penetrasse di nuovo all’interno delle tende.

Nella mia baracca c’era Alfredo che si dilettava anche a fare il chiromante: usando delle forbici fissate su un casco cercava di predire il futuro. Il desiderio di conoscere il futuro era così grande che tutti noi ci rivolgevamo a lui per sapere notizie delle famiglie lontane e per cercare di scoprire quando sarebbe finita quella dannata guerra.

Qualcuno rimaneva soddisfatto altri no, dipendeva forse da quello che si volevano sentir dire! Alfredo mi raccontò che una volta, provando un certo senso di colpa, si confidò del fatto con il cappellano militare padre Ugo, il quale gli rispose che non era una cosa peccaminosa. La domenica veniva nel campo un cappellano militare cattolico inglese per celebrare la Messa.

Alfredo, calzolaio di professione, oltre a riparare le scarpe ai prigionieri, su richiesta tagliava anche i capelli. Inoltre cucendo degli asciugamani era riuscito anche a confezionare pantaloni, magliette, mutande ed altra biancheria. Una volta fece un paio di scarpe numero 47 al tenente Mocchegiani di Tolentino.

Per gli acquisti all’interno del campo di prigionia erano usate delle apposite banconote con valore in Rupie indiane, non spendibili all’esterno, ogni Rupia indiana era divisa in 16 Annas.

 

Eno Santecchia

 

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